Recensioni

LA FILOSOFIA COME CURA

Moreno Montanari, Ed. Mursia, Milano, 2012

 

Recensione di Nicoletta Poli

 

Finalmente un libro, quello di Moreno Montanari, che parla della filosofia, più precisamente della nascita della filosofia, come di un atto quasi primordiale, non mediato dal sapere, ma da un’”inquietudine esistenziale figlia della capacità dell’uomo di dare senso alla propria esistenza” (pag.7). Ben venga allora quella enorme lacuna di cui parla Nietzsche – citata  dettagliatamente dall’autore – quella deficienza ontologica che circonda l’uomo e di cui l’uomo non sa spiegare l’imponente assurdità….Poichè è a partire da lì, da quell’ horror vacui che l’uomo si pone tutte quelle sacrosante domande:” A che scopo soffrire? Sarò sempre schiavo del destino? Come potrò supplire a questa continua e disperata mancanza che ogni giorno mi fa sentire piccolo e solo, inutile e insignificante nel cosmo? Chi sono? Dove sto andando? C’è un rimedio a questa sofferenza, potrò mai uscire da questo tunnel pieno di ombre ed eventi incomprensibili?”.

 

L’autore – da saggio filosofo ed esperto di pratiche filosofiche antiche d’Oriente e d’Occidente – intanto- fin da subito - esordisce con R. Safransky “La filosofia è la vita che si prende cura di se’”. E’ una cura per l’anima in pena…Proprio come scriveva Seneca in “Lettere a Lucilio”: “La filosofia non è un'arte che cerca il favore popolare e non è fatta per essere ostentata; non consiste nelle parole, ma nei fatti. Di essa non ci si vale per far trascorrere piacevolmente le giornate, per eliminare il disgusto che viene dall'ozio: educa e forma l'animo, regola la vita, governa le azioni, mostra ciò che si deve o non si deve fare, siede al timone e dirige la rotta attraverso i pericoli di un mare in tempesta.”

Insomma, la filosofia si occupa della vita, del nostro tempo attuale, non ostenta nulla, cerca solo di rendere all’uomo maggiormente comprensibile la realtà. Come ben mette in evidenza il filosofo Montanari, dunque, da Socrate ad Heidegger a Seneca “il compito di ogni uomo è quello di avere cura di conoscere e diventare ciò che si è attraverso un percorso sapienziale che non si situa solo nell’ordine della conoscenza, ma nell’ordine del Sé” (p.9). Una complessa strada costellata di ratio, ethos e pathos che impegna tutta la nostra vita fino alla morte….Una vita in cui ci prendiamo la responsabilità di prenderci cura di noi stessi. E ciò non è un precetto, ma un atto di libertà, poiché siamo assolutamente liberi di prenderci cura di noi stessi e del mondo. Di più. Di prenderci altresì cura del significato del nostro esserci nel mondo, evitando di accusare gli altri delle proprie sventure. Sicchè l’autore si affida correttamente alle riflessioni di Epitteto: “E’ proprio di chi è ignaro di filosofia accusare gli altri delle proprie disgrazie; è proprio invece di chi ha iniziato a istruirsi accusare se stesso; è proprio infine di chi si è educato nella filosofia non accusare gli altri né se stesso”.

 

Ma la fatica di diventare un se stesso consapevole e, oserei, “diamantino” nell’affrontare la sventura, per il filosofo Montanari, prevede anche l’essere cosciente che, come scrive J. Ortega Gasset, “La vita è essenzialmente un dramma, perché è lotta frenetica con le cose, e perfino con il nostro temperamento, per ottenere di essere di fatto ciò che siamo in progetto”. (p.54). Il dramma, l’ombra, l’illusione, il caos… Tutte questioni da affrontare e trasformare in qualcosa di altro. E chi lo può fare se non la riflessione del filosofo? Filosofia non è sentenziare, ma comprendere, consapevolizzare, confrontarsi, rapportarsi anche con l’altro da se’. Addirittura instaurare un rapporto dialettico con la negazione, che è una possibile risorsa per migliorare noi stessi. Scrive Nietzsche – citato dall’autore - : “Perché ci sia bellezza sul volto, l’ombra è necessaria quanto la luce”. Solo in tal modo, dunque, comprendiamo “se il modo in cui pensiamo e viviamo ci esprima e ci corrisponda realmente o se sia semplicemente la maniera in cui il senso comune ci ha abituato a vivere e a pensare, spossessandoci della nostra autenticità” (p.26). Ed ecco che l’autore qui esplicita la parola chiave: autenticità, un’autenticità che, per Heidegger, si può guadagnare solo ad opera della cura che l’individuo decide di assumere non solo nei confronti di se stesso, ma anche nei confronti del mondo. E’ un uomo assolutamente autentico quello che descrive il filosofo Montanari, è un uomo che sa di potere divenire ciò che è, di “poter essere”…

E così, come Nietzsche fa nascere la filosofia dalla inquietudine, così’ Aristotele la fa nascere dal dolore e dalla meraviglia. Da questo dolore, da questa inquietante meraviglia, la filosofia cerca di far recuperare all’uomo il proprio significato nel mondo. E, consapevolmente, l’uomo comincia a guadagnarsi la libertà di agire e pensare liberamente, di interrogarsi su tutto il divenire dell’universo così cangiante, bello, imprevedibile, terribile…. Un libero essere  pensante – pur talvolta tentato dall’avvento di una Messia che possa risolvere d’un tratto le proprie pene – chiamato  alla “voce della coscienza”…quella “chiamata dell’esserci alla sua autenticità”(p.29).Grazie a questa chiamata ci si può traghettare ad una nuova condizione esistenziale, mettendo in campo nuove risorse, talenti dimenticati, ratio e sentimenti inediti…Quel dolore, quell’inquietudine, quello stupore attonito davanti al subbuglio del mondo, quel veleno che ci invade l’anima si può trasformare in medicina, in speranza.

E l’’autore qui si immerge – a mio parere con grande profondità (p.31) – nei principi basilari della filosofia buddista, di cui un riferimento fondamentale è la concezione della sofferenza come “prima nobile verità”, che apre ai mondi superbamente cristallini della compassione per approdare ad una ideale compiutezza “…che conduca alla definitiva sintesi di tutto ciò che in noi è frammento e tensione all’unità, meta, almeno da Platone in poi, concepita come luogo del bene in se’”( p.37). Suggestivo questo anello di congiunzione tra Platone e Budda che l’autore muove nell’aria…

Così la filosofia diventa un’opportunità per valutare diversamente le proprie ombre, per rimettersi in gioco e progettare il futuro senza luoghi comuni, omologazioni culturali e sociali, che hanno fatto diminuire notevolmente, in questi anni, la soglia di sopportazione delle difficoltà di fronte ai problemi. E non si può non essere d’accordo con Montanari che rileva un dilagante senso di inadeguatezza, troppo spesso patologizzato con un eccessivo uso di farmaci antidepressivi e raramente valutato come problema sociale. Tutti spaventati da “questa grande paura di mancare”( p.43), frequente strategia - vuota e parassitaria - del nostro sistema consumistico.

Certo è che grazie alla mancanza, grazie al vuoto, l’interrogazione filosofica  rivaluta la domanda di R.Lahav: “Ma la vita è tutta qui? Non ci potrebbe essere qualcosa di più? Devo sempre reprimere i miei sogni?”. Insomma, provo o no a mettermi seriamente a prendermi cura di me stesso e del mondo? Con semplicità, ratio e pathos, così come scrive Marco Aurelio: “Sii pio, buono, senza orpelli, tenace nel tuo dovere di uomo”. Essere autentici, senza subire la propria vita, assumendosi le responsabilità del proprio pensare…Senza deiezioni, senza fuggire dal proprio essere e dal chi si vuole diventare, riconquistando la nostra posizione eretta anche nella sofferenza, facendo tenacemente il nostro mestiere di uomo. La sofferenza non va rifuggita, ci può sostenere nell’imparare a ritrovare noi stessi, a riconquistare l’antica armonìa con la nostra filosofia di vita in accordo coi nostri bisogni, i nostri desiderata. L’affrontare deliberatamente il dolore con consapevolezza e perseveranza conduce quasi ad una conversione, ad un cambiamento di visione della propria e dell’altrui vita in una cornice di attenzione a se stesso, di vigilanza su una sorta di virtù cosmica. Ricordiamo Platone: “…..arrecherò il massimo beneficio cercando di persuaderlo a preoccuparsi meno di ciò che ha che di ciò che è, per diventare eccellente e ragionevole tanto quanto è possibile”[1]. E Socrate? Socrate costringe lo spregiudicato politico ateniese Alcibiade a confessare a se stesso le proprie mancanze fino a non ritenere possibile comportarsi come in passato. Nelle Nuvole Aristofane, magari influenzato dalle pratiche socratiche, scrive: “Medita adesso e concentrati profondamente con tutti i mezzi, avvolgiti su te stesso concentrandoti. Se cadi in qualche difficoltà, corri svelto in un altro punto…..Non ricondurre sempre il tuo pensiero a te stesso, ma lascia che la tua mente prenda il volo nell’aria, come uno scarabeo che un filo trattiene per una zampa.”[2].

 

Dunque, quel vuoto, come afferma l’autore, non ha senso rifuggirlo (p.47), perché ci può sostenere nel pensare più chiaramente, nel costruire la nostra eudamonia, “quella forma di felicità che, a differenza del desiderio, non è data dalla ricerca o dal raggiungimento di ciò che non si ha, ma che consiste nel saper vivere in armonia con le proprie potenzialità”. L’autore ben spiega quanto sia una conquista ardua quella di diventare se stessi, di percorrere  il cammino verso la completezza e la verità. Quella ricerca in continuo divenire che ben esprime F.Pessoa ne“Il Libro dell’inquietudine”:“Cerco me stesso senza incontrarmi”. In quel travaglio della trasformazione (p.59), Montanari si appella ad Hegel, caratterizzando quella trasformazione in qualcosa di alchemico dovuto alla capacità dello spirito di trasformare il negativo in positivo… Ancora una volta il veleno che si trasforma in medicina, il rigore e la severità dell’essere umano che convive con la propria ombra, con il proprio demone e se lo fa alleato, stipulando quasi un patto benefico - e ancora una volta alchemico - tra ratio e pathos, tra l’io-monade disperato e smarrito in un mondo algido ed inospitale e l’io laborioso immerso in una Terra da abitare, da progettare. Un addio alla coscienza infelice di hegeliana memoria, infelice perché incapace di riconoscersi nel tutto, in quel complesso terra mondo in cui forgiare ad infinitum se stessi e gli altri. E poi – come  scrive Platone – un uomo trova la sua realizzazione nella partecipazione alla vita collettiva, alla costruzione del bene comune.  

Sicchè, se il dolore è strutturale alla vita, esso è anche un alleato per approdare ad una nuova coscienza, ad una nuova condizione esistenziale, soprattutto ad una scelta particolare. Come scrive il filosofo Montanari: Vi può anche essere la scelta di una fede, o di nessuna. Infine vi è una scelta particolare, la scelta di scegliere – e questa da oltre duemila anni ha un nome: filosofia”(p.65). Un Io liberato che si interroga, che esercita il proprio spirito critico. La decisione di decidere, la scelta di scegliere….di trasformare la necessità in libertà (p.74). Allora sì che è possibile divenire con, insieme, al mondo. E’ come se si verificasse l’apertura tanto agognata di uno spazio interstellare, ove la persona è sempre in statu nascendi, in cui “ ..E’ errato credere che l’essere significativo si possa acquisire inavvertitamente” (p.80). Sarebbe un errore  imperdonabile lasciar consumare le ore nella speranza di giungere alle mete della vita…. Vivere anziché essere posseduto dalla vita, essere artefici del nostro destino, dunque. Ricordiamo Seneca: “Niente ci appartiene, Lucilio, solo il tempo è nostro”. E ancora e sempre Seneca[3]: “Sono pochi quelli che decidono di sé e delle proprie cose a ragion veduta: gli altri, come gli oggetti che galleggiano nei fiumi, non avanzano: vengono trasportati: alcuni sono trattenuti e spostati più lentamente da una corrente più debole, altri trascinati con maggiore violenza, altri deposti vicino alla riva da una corrente meno forte, altri gettati in mare dall'impeto delle acque. Dobbiamo, perciò stabilire che cosa vogliamo e perseverare nei nostri propositi.

 

L’autore cita saggiamente il termine di kairos (un tempo capace di unire passato e presente per operare nell’immediato futuro) (pp.88-89) “che sostituisce un presente che ospita e da’ spazio alla nostra volontà”. Insomma, un tempo senza una struttura lineare, un flusso temporale in cui la coscienza presente-passata-futura si incunea in una clessidra e – nietzschianamente – si può capovolgere all’infinito in un eterno ritorno, in una eterna rigenerazione in cui il nostro essere uomini, come ben sottolinea l’autore, “è sempre messo alla prova, è sempre rischioso, precario” (p.94). Ed in questa vita-clessidra, nella prospettiva iridescente di un nichilismo non passivo, bensì teso a “dire di sì alla vita persino nei suoi problemi più oscuri e più gravi” (p.103), senza un Messia, senza un Giudice supremo, l’uomo non ricerca più il senso nella realtà, ma in se stesso ( “ siamo noi stessi il senso” ), nelle sue opere, nelle sue azioni, nella sua volontà di modificare la polis, la communitas, il terramondo.

Concordo con l’autore che sostiene che la filosofia opera per la salvaguardia del mondo, insegna a guardare in faccia la possibile sventura, scuote il mondo dal torpore (p.132). Ma soprattutto vieta di considerare inevitabili sconsideratezza e sventura. Una scommessa continua nell’eterno divenire in cui il soggetto stesso trova il suo senso proprio attraverso il trascendimento della propria soggettività e la sua ricollocazione in una oggettività che è idealmente l’umanità tutta.

Ognuno dovrebbe trovare il suo posto nel mondo, credo, e penso che questo libro possa fare riflettere molto su questo punto. Essere uomini è progettare, decidere, sfidare, non soltanto andare avanti….La filosofia dovrebbe far aspirare al soggetto una vita meno conveniente ed opportunista e più ideal-passionale, proiettata verso il futuro. E come dice l’autore a prepararsi con estrema tranquillità d’animo, nonché attraverso la meditazione, alla morte.

L’eleganza, la sobrietà di questo libro di filosofia sta proprio nel chiedersi semplicemente del senso della propria vita. E interrogarsi sul senso della propria vita è forse sintomo di una malattia? Curare una malattia come malessere è un errore, ma anche curare un malessere come una malattia è un errore, un inganno. E se la filosofia – accolgo a piene mani dalla quarta di copertina del libro – non sarà sempre in grado di apportare agli uomini quella guarigione che “consisterà nel liberare l’anima dalle preoccupazioni della vita, per condurla alla semplice gioia di esistere “ – come amava dire Epicuro – essa potrà almeno insegnargli “ a non farsi ingannare”.

 

 

[1]Platone, Apologia di Socrate,36b-c(TP,I,pp.61,62).

[2] Aristofane, Nuvole,,700-6; 761-63 ( trad. fr. Van Daele modificata) ; sta in: Aristofhanes, ed.V. Coulon e H. Van Daele, Les belles Lettres, Parsi,1948-58).

[3] Ibidem, Libro III, 8.

 

Nicoletta Poli, ricercatrice IRS (http://www.irs-online.it/), filosofa, scrittrice e poetessa. http://psicofilosofia.jimdo.com/