Recensioni

LA BELLA ADDORMENTATA

film di Marco Bellocchio

 

Recensione di Giovanni Ghiselli

 

Il film di Bellocchio, un film bello, raffigura un mondo pieno di confusione, di dolore e di oscurità. Alla fine però si vede la luce della coerenza, della carità e dell’amore.

Amore per l’umanità sofferente. Quello di cui sentiamo la mancanza e il bisogno.

In un certo modo il regista piacentino è tornato alla tematica di I pugni in tasca, mostrando un’umanità fatta in parte di psicopatici, maniaci e sofferenti, in parte di opportunisti. Questa volta però non mancano i personaggi positivi e la conclusione lascia aperto il vaso della speranza.

Il filo conduttore è la vicenda di Eluana che occupò le cronache per mesi e si risolse con la liberazione della ragazza da una vita-non vita.

Da questa storia di fondo ne escono altre.

Una è la crisi di coscienza di un senatore ex socialista, fatto eleggere da Berlusconi. Questo parlamentare, interpretato da Toni Servillo, bene come sa fare lui, decide di non votare con i colleghi del suo partito in favore dell’accanimento terapeutico obbligatorio, ma di seguire la propria coscienza e mantenere la propria coerenza: un esempio assai raro di politico che antepone la sua dignità di uomo agli interessi della carriera e del guadagno. Interessi meschini oltretutto. In una scena di sapore felliniano si vedono dei parlamentari disfatti,  semiimmersi una specie di calidarium dove uno psichiatra (Roberto Herlitzka) denuncia le loro tare mentali dovute alle innumerevoli frustrazioni, in primis alla consapevolezza di non valere e non contare più niente.

La figlia del senatore in crisi di coscienza, una ragazza stranita ( Alba Rohrwacher), intruppata con i partigiani del tenere in vita Eluana a tutti i costi, lo sfugge poiché lo ha visto aiutare a morire  sua madre, senza sapere che la donna glielo aveva chiesto e senza avere capito che il padre  aveva compiuto un doloroso atto d’amore verso la moglie.

Poi c’è una donna, un’ex grande attrice (la Huppert, sempre brava) che ha rinunciato a recitare, in pratica a vivere, per occuparsi della figlia in coma.

La madre, per seguire questa ragazza viva-non viva, senza del resto potere aiutarla, trascura l’altro figlio, un maschio  che vorrebbe diventare un ottimo attore a sua volta, e tenta di porre fine alla vita della sorella, ma, diversamente da Alessandro di I pugni in tasca, non ci riesce poiché ne viene impedito. Questa a parer mio è la parte più debole del film.

Infine la terza storia, quella della donna drogata (Maya Sansa, molto brava e pure molto bella) con manìe suicide. Viene sorvegliata, aiutata e salvata da un medico umano (Piergiorgio Bellocchio), che  se ne cura oltre i doveri professionali, “per umanità”, come dice lui stesso.

Il film passa da una di queste storie all’altra, mentre su ciascuna arrivano notizie relative alle ultime ore di Eluana e ai contrasti, agli eventi innescati da questa vicenda. Il film è bello dicevo, è davvero bello, e lascia un messaggio di speranza. La figlia del senatore capisce l’amore del padre suo in seguito alla pur brevissima esperienza amorosa fatta con un ragazzo (Michele Riondino) anche lui inquieto per la presenza di un fratello squilibrato e di una madre problematica. Il giovane amante fugge quasi subito ma la ragazza attraverso questa rapida storia comprende: attraverso l’amore, la comprensione.

E’ vero che tante volte è la mancanza totale di amore che rende incapaci di capire.

Si impara ad amare solo quando si viene amati, sia pure per poco.

Meno rasserenata è la storia dell’attrice rinunciataria, impietrita in una parte di madre dolente che costituisce la sua recita estrema a scapito del figlio e del marito, senza alcun beneficio per la ragazza in coma.

Molto bella e intensa è  la storia della drogata, accattona e ladra per giunta, una disgraziata totale. Il medico sa di essere uomo, cosa che tanti uomini invero dimenticano, e fa di tutto per aiutare la giovane donna ricoverata in ospedale dopo un tentativo di suicidio.

Il dottore la trattiene da un secondo conato di morte volontaria afferrandola per le gambe mentre tenta di gettarsi dalla finestra, quindi le parla, la ascolta, le fa capire che la sua persona non è spregevole e non deve essere buttata via come spazzatura. Durante un alterco, lei gli propone “una scopata”. Lui la rifiuta perché “troppo facile”, e la donna  chiede se gli  faccia schifo, sicura di fargliene. Il medico risponde con calma di no, poi, quando lei si addormenta, la bacia con delicatezza, senza svegliarla. Quindi si assopisce lui, mentre lei si sveglia e apre la finestra come per  buttarsi di sotto. Ma vede, guarda il cielo e non lo fa. Questa scena è splendida, in senso proprio: è piena di luce.

L’anno scorso ai primi di agosto parlai con Bellocchio a Bobbio, il suo festival cinematografico. Gli chiesi che rapporto avesse con la tragedia greca.

 Disse che si era accostato  tardi ai classici greci. Eppure, non so se per caso o volutamente, in questo film ho trovato due analogie con le ultime due tragedie del teatro greco classico: l’Edipo a Colono di Sofocle e le Baccanti di Euripide, rappresentate entrambe verso la fine della guerra del Peloponneso.

Nel primo dramma, Edipo  giunto a Colono, un sobborgo di Atene, dopo essersi scoperto incestuoso e parricida, essersi cavato gli occhi, ed essere stato allontanato dalla sua Tebe come peste, bandito e cacciato perfino dai figli maschi, viene invece accolto da Teseo, il re della regione dove si è rifugiato sorretto dalla figliola Antigone.

 “Perché lo fai?”, domanda il vecchio cieco al signore dell’Attica. “Perché so di essere uomo”[1], risponde Teseo, siccome ho sofferto anche io, e comprendo che le sofferenze riguardano tutti. Ebbene, i personaggi del film, in particolare il medico e il senatore, provano, condividono il dolore degli altri e sentono la carità.

Bellocchio certamente non è un uomo di chiesa, con la quale anzi è polemico, ma è uomo religioso nel senso che ha la percezione dell’anima.

Passo alle Baccanti e concludo. Nella parte finale della tragedia di Euripide, Agave, la madre che, invasata e resa furente da Dioniso, durante la fase acuta del delirio, ha fatto a pezzi il proprio figlio Penteo senza rendersene conto, torna in sé quando, sollecitata da suo padre, Cadmo, guarda il cielo e lo vede più luminoso di prima[2].

E’ quello che fa la drogata come apre la finestra. La giovane donna ha sentito l’attenzione affettuosa del medico che è pure uomo, ha visto la luce dell’etere, ha avuto il presentimento dell’infinito, e non si butta di sotto. Torna nel suo letto. Quando anche il dottore si sveglia, le due persone si guardano e si riconoscono.  

Penso che questo film meritasse riconoscimenti maggiori.          

 

[1] e[xoid  j ajnh;r w[n, Sofocle, Edipo a Colono,  v. 567

[2] Euripide, Baccanti, vv. 1264-1267.

 

Giovanni Ghiselli ha insegnato a lungo materie classiche nei licei e ha tenuto corsi di didattica della letteratura greca presso la SSIS dell'Università di Bologna e presso quella di Bressanone-Bolzano. Attivo anche nell'ambito dell'aggiornamento per docenti, ha curato e commentato diverse edizioni di classici, tra i quali l' Edipo Re (Loffredo, Napoli 1997) e l' Antigone (Loffredo, Napoli 2001) di Sofocle, Storiografi greci (Loffredo, Napoli 1999),  un'antologia dell'Odissea (Ulisse. Il figlio, le donne, i viaggi, gli amori, Loffredo, 200) La vita felice di Seneca (Siena 2005), Medea di Euripide (Cappelli, 2008). Euripide Baccanti (Canova,  Treviso, 2010); Petronio, Satyricon, Canova, 2006). Ha tenuto conferenze in vari licei e Università italiane e al festival della filosofia di Modena. Ha inoltre collaborato con Repubblica, con la Gazzetta di Modena e con il Fatto Quotidiano. g.ghiselli@tin.it