Recensioni

IL FESTIVAL DELLA FILOSOFIA

Modena, 14 settembre 2012

 

Considerazioni di Giovanni Ghiselli

 

Ho seguito il primo pomeriggio del festival della filosofia sulle cose: una festa di popolo e di studiosi che parlano, nelle piazze, a tante persone che vengono a Modena, Carpi e Sassuolo per imparare. Ascoltano con attenzione, poi, dopo gli applausi, fanno domande generalmente pertinenti. Ero nella piazza grande del capoluogo e ho pensato all’agorà di Atene con i discorsi di Pericle e al suo “amiamo il bello con semplicità e amiamo la cultura senza mollezza (filokalou'mevn te ga;r met  j eujteleiva" kai; filosofou'men a[neu malakiva", Tucidide, II, 40, 1).

Gli studiosi che conoscono bene e possiedono l’argomento con la mente, sanno parlarne con semplicità, quella prudens simplicitas che è complessità risolta in frasi piene di significato e chiare.

 

Ho ascoltato per primo, alle 15, Vanni Codeluppi sulla “Vetrinizzazione”. Il professore di sociologia presso l’Università di Modena e Reggio Emilia che ha parlato della nascita delle vetrine nel ‘700, quindi ha spiegato come l’esposizione della merce per promuoverne la vendita, un poco alla volta è diventata  messa in mostra di individui che intendono autopromuoversi per ottenere vantaggi. Tale esibizione di sé, naturalmente avviene a vari livelli, dal divo, all’uomo politico, alla prostituta che devono vendersi al prezzo più alto possibile, come le merci. Ho pensato alle famigerate ragazze in vetrina di Amburgo. Ne sentivo parlare quando ero ragazzo. La messa in scena fatta per colpire l’occhio può riguardare  anche l’architettura, perfino un’intera città, come quelle barocche, e non solo quelle, disegnate e costruite proprio come una scenografia di teatro. Le vetrine sono diventate i templi della religione in vigore adesso: quella del consumo. Gli adoratori e i seguaci di tale culto, che sono tanti, trovano l’identità attraverso le merci che possono o che vorrebbero comprare, una identità fasulla e gregaria naturalmente, suggerita dalle marche possedute o agognate. Costoro dipendono dagli oggetti.

 

Mi viene ancora in mente, e contrario, il Pericle di Tucidide che diceva al suo popolo : “non sono gli oggetti che acquistano gli uomini ma gli uomini gli oggetti  (ouj ga;r tavde tou;" a[ndra", ajll j oiJ a[ndre" tau'ta ktw'ntai,  143, 5)” .  Ora l’uomo è immerso negli oggetti e rende oggetto perfino il suo corpo, riempiendolo di orpelli e anche modificandolo in vari modi, pure cruenti.  Orpelli che spesso non sono opportuni e non convengono,  come scrive Sofocle nell’Edipo re   a proposito di quelli del tiranno, il figlio dell’ u{bri~, il quale sale su fastigi altissimi ma finisce con il cadere nella necessità scoscesa dove non si avvale di valido piede  (vv. 873-877).

 

Torno alla relazione di Codeluppi che ha collegato le manipolazioni del corpo operate da tanti con il desiderio ansioso di corrispondere ai modelli vetrinizzati e pubblicizzati. Ma tale brama non è mai del tutto realizzabile, allora l’insoddisfazione spinge agli psicofarmaci e a droghe varie. Per quanto riguarda l’alienazione ed espropriazione finale, la morte, si cerca di esorcizzarla, tenendola nascosta o, viceversa, di spettacolarizzarla, come quando si applaude ai funerali.

 

Dopo un breve intervallo, ha parlato Zygmunt Bauman, professore emerito di sociologia nelle Università di Leeds e Varsavia, un uomo di 87 anni, pieno di vita. Ha detto che le cose significano ciò che pensiamo e diciamo di loro: siamo noi che le giudichiamo, e non può né deve avvenire il contrario. La pubblicità però cerca di inculcarci giudizi positivi su quanto vuole farci comprare, anche se è dannoso. Nello stesso tempo del resto, la propaganda consumistica ci induce a usare e gettare via presto le cose acquistate, per  acquistarne altre, poi altre ancora. Tale abitudine invalsa dell’usa e getta purtroppo si applica anche alle persone da parte di molti. C’è dunque un consumismo generalizzato, impiegato con gli oggetti e con tutto il resto. La relazione consumistica è diventata paradigmatica, esemplare di ogni rapporto. Come non c’è reciprocità con le cose, rischiamo di perderla con gli esseri umani che vengono reificati e quindi diventano usabili e sostituibili al pari degli oggetti. Si resta sulla superficie di cose e di persone sulle quali facciamo come del surf.

Questo però può darci sensi di colpa e frustrazioni varie per cui tanti ricorrono agli psicofarmaci che Bauman ha definito “tranquillanti morali”.

E in definitiva ogni negozio è una farmacia dalla quale cerchiamo un conforto all’ansia, comprando regali per gli altri cui non sappiamo volere bene, e per noi stessi che non amiamo.

Per quanto riguarda la tecnologia, il fine di chi la manovra è sostituire il mondo naturale. Una espressione che mi è piaciuta molto e mi ha fatto pensare a Prometeo. Veramente il professore emerito parlava in inglese e io ne ho ascoltato la traduzione simultanea che copriva la sua voce, quindi non riferisco proprio le parole di lui ma quelle del suo traduttore simultaneo.

Il titano di Eschilo dunque, il vero inventore della tecnologia si vanta dicendo pa'sai tevcnai brotoi'sin ejk Promhqevw" ( Prometeo incatenato, v. 507), tutte le tecniche ai mortali derivano da Prometeo. Ma riconosce di avere infuso negli uomini cieche speranze. ("tufla;" ejn aujtoi'"  ejlpivda" katw/vkisa", v.250).  Egli è divinità solo apparentemente benefica,  in quanto portatore di conoscenze pratiche fuorvianti:" qnhtou;" g j e[pausa mh; prodevrkesqai movron", ho fatto smettere ai mortali di prevedere il destino"(v.248). La tecnica infatti “funziona” ma non svela la verità, come ha notato Galimberti in altra occasione.

 

Ma torno a Bauman. Il contrario dell’usa e getta del consumismo è l’amore che è un impegno a lungo termine: è un prendersi cura l’uno dell’altro. Ora si parla a vanvera di amicizia e di amici, come quelli degli elenchi, spesso lunghissimi, di facebook.  “Ho 87 anni- ha detto il relatore- e non ho altrettanti amici”. L’amicizia insomma è un valore raro e grande che, proprio per questo, quando è autentico, dà gioia vera.  Felicità, o almeno soddisfazione, può derivare anche da un lavoro fatto bene. Per fare un esempio, la sto provando per come riassumo e commento quanto ho ascoltato ieri a Modena.

Invece i politici cercano di persuaderci che la soddisfazione maggiore deriva dalla crescita del cosiddetto PIL, e dal comprare ad esso collegato. Bush figlio consigliava alla gente di tornare al supermercato per uscire dalla crisi. Più o meno altrettanto faceva Berlusconi. Invece bisognerebbe tornare a sentire la responsabilità morale che dovrebbe rifiutare questa distribuzione della ricchezza del tutto iniqua e talmente squilibrata che non potrà non sfociare in guerre e in massacri. Ma la tirannide del mercato si adopera per allontanare gli esseri umani  dalla responsabilità morale. Bauman poi ha menzionato gli ajdiavfora della filosofia stoica, le cose indifferenti: nel senso che la tecnologia presenta come indifferenti certi eventi che invece sono eticamente rilevanti, spesso in senso negativo, come guerre e ingiustizie. E’ un poco l’operazione, aggiungo, che fa Polibio quando biasima il collega Filarco il quale mostra le pene dei vinti nelle sue Storie. Lo storico di Megalopoli, che invece celebra i vincitori, sostiene che la storiografia, a differenza della tragedia, deve essere pragmatica, cioè presentare i fatti senza commenti pieni di pathos, e di pietà.

 

L’ultima riflessione ha riguardato il potere globalizzato, vagante nello spazio dei flussi, del tutto emancipato dalla politica, incontrollato e incontrollabile. Ma Il potere che non subisce controllo è quello del tiranno. Bisognerebbe dunque rimodellare potere e politica.

 

Quindi ha parlato Remo Bodei, che è professore di filosofia presso la UCLA e Presidente del Comitato Scientifico del festival. Espone con chiarezza le sue vaste conoscenze, le riflessioni che ne ricava,  e parla con entusiasmo suscitando entusiasmo. Bodei ha distinto la cosa dall’oggetto attraverso dotte e interessanti etimologie.

Ha collegato “cosa” con il latino causa, come una questione che ci dà un motivo e ci sta a cuore, mentre “oggetto”  viene da obiectum che è participio passato di obicio, “getto davanti”, “contrappongo”. Quindi l’obiectus, nel latino medievale obiectum,  è un impedimento, una barriera. Ha poi ricordato che un significato analogo ha il greco provblhma, da probavllw, “getto davanti”. L’oggetto dunque ci ostacola, la cosa-causa ci dà motivi, ci spinge. Causa rimanda anche a responsabilità e a causa legale, a discussione, e richiama il tribunale, l’assemblea, la dimensione pubblica, la discussione, al pari di res il significato della cosa che, mentalmente posseduto, suggerisce le parole, secondo il motto di Catone "Rem tene, verba sequentur" [1]: la res tenuta nella mente con chiarezza fornisce i verba che sono collegati etimologicamente a rhetorica, all’arte del parlare in pubblico e a parrhsiva, la libertà di parola senza la quale non c’è democrazia. Anche dal nome latino dello Stato, res publica, si vede come la “cosa” partecipi della collettività della politica e della storia. Nelle cose infatti si depositano le idee e le azioni degli uomini. Conservano le nostre res gestae e quelle di chi ci ha preceduto. Le rovine sono ancora cosa viva, certo più viva dei troppi oggetti che vanno a finire nelle discariche.  Se riusciamo  a liberare le cose, a farle emergere dal fango dei luoghi comuni, a ripulirle  dalla polvere della banalità, i nostri orizzonti, il mondo stesso si allarga. Le cose conservano e mostrano  gli affetti umani in loro riposte. Allora possiamo redimere gli oggetti in cose salvandoli dalla loro insignificanza. Tante cose sono simboli: metà di tessere che rappresentano periodi della nostra vita, mantengono vivi ricordi di persone, di affetti, di gioie, di dolori anche, dai quali possono sempre nascere intelligenza e comprensione. Queste metà di tessere vanno riuniti con l’altra metà che è dentro di noi. Così la nostra visione si amplia e la memoria, la vita stessa si allunga.

Mi sono venuti in mente alcune cose della letteratura piene di significati.

Il letto di Odisseo che vale come chiaro segno di riconoscimento tra due coniugi separati da vent’anni[2]; il tappeto rosso dell’Agamennone di Eschilo[3] l’ambiguo segno teatrale che steso davanti al re vincitore "non è affatto, come egli immagina, la consacrazione quasi troppo alta della sua gloria, ma un modo di consegnarlo alle potenze infere, di votarlo senza remissione alla morte, questa morte "rossa" che viene a lui nella stessa "sontuosa stoffa" preparata da Clitennestra per prenderlo in trappola come in una rete"[4].

Altro oggetto ambiguo, simbolico di guerra cavalleresca e di morte disperata è la spada a borchie d’argento che Aiace riceve in dono da Ettore[5]. Con questa stessa arma il Telamonio si ucciderà nella tragedia di Sofocle dopo averla ricordata come e[cqiston belw'n (Aiace, v. 658), la più odiosa tra le armi, e avere sentenziato che sono non doni, i doni dei nemici e non sono vantaggiosi:"ejcqrw'n a[dwra dw'ra koujk ojnhvsima" (v. 665).

Virgilio riprende il topos con l'ensis lasciata[6] da Enea e impiegata da Didone, quale dono richiesto non per essere usato in quel modo[7], ossia  per il suicidio. L’ambiguità di questa spada è totale: infatti essa è “oggetto” in quanto si oppone alla vita ed è nello stesso tempo “cosa” carica di ricordi anche belli. Le armi hanno spesso questa funzione simbolica: si può pensare pure allo scudo di Archiloco che non si pente di averlo abbandonato se ha salvato la vita, o a quello dei Germani di Tacito che viceversa si impiccano dalla vergogna se lo hanno abbandonato[8]. Alcune di queste cose, come abbiamo visto per la spada, vengono impiegate in vari testi da autori diversi, come topoi o  "argumenta quae transferri in multas causas possunt"[9].

Anche le vesti possono assumere significati simbolici. Il Cristo tribolato, l'ecce homo già prossimo alla morte, quando viene esposto da Pilato è vestito di porpora[10], e Dario III mentre si trovava capo dell' esercito persiano schierato contro Alessandro era riconoscibile per il suo sfarzo cui non mancava la porpora, ancora una volta un segno sinistramente ominoso: "purpurae tunicae medium album intextum erat"[11], la tunica di porpora era intessuta d'argento nel mezzo. Il grande  re di lì a poco si sarebbe capovolto in farmakov~.Si potrebbero fare tanti esempi di cose piene di significato, dalle coppe di Alceo colme di vino e simboliche di amicizia conviviale, alla veste di lino e di lana, volendo restare ai tessuti[12].

Ma preferisco tornare a Bodei, il quale del resto quando sono intervenuto, in fase di dibattito, con una rassegna breve, più breve di questa, di tali “cose” in letteratura, mi ha signorilmente ringraziato per il contributo. Un piccolissimo contributo il mio.

La seconda parte della lectio magistralis è stata più politica.

Dobbiamo riscoprire il valore degli affetti che il PIL e i suoi fautori fanatici hanno la pretesa di inumare. Ritrovare i piaceri della convivialità, i conforti della solidarietà e della carità.

Il PIL non può crescere all’infinito, e fissare un’attenzione totale, esclusiva, sui dati economici può farci dimenticare la quintessenza della nostra umanità che è l’amore per gli altri uomini.

I devoti guardiani del PIL mortificano le cose, le svuotano di bellezza, storia e poesia trasformandole in oggetti da discarica. I nostri governi sii comportano come il Prometeo del Protagora di Platone (322d), anzi peggio. Il Titano distribuiva agli uomini oggetti e tecnica, senza fornire arte politica, rispetto e giustizia. I mortali si uccidevano a vicenda finché Zeus impose la presenza di questi valori politici. I fautori del PIL non danno nemmeno gli oggetti; li promettono a chi farà come dicono loro..  Bodei ha denunciato con forza l’espropriazione operata dall’economia che ha esautorato la politica e tende a divaricare il mondo naturale da quello umano. La stessa democrazia verrà avvelenata dal predominio tirannico del mercato e del capitale. L’infezione è già in fase avanzata. Aleggia un mivasma, una contaminazione, come nella Tebe dell’Oijdivpou~ Tuvranno~  di Sofocle[13], o peggio dell’Oedipus di Seneca che ammette: Fecimus coelum nocens" (v. 36),  io ho reso colpevole il cielo[14].    

Mi fanno sperare gli studiosi che hanno parlato e le persone che li hanno ascoltati con attenzione.


[1] Fr. 15 Jordan.

[2] nu'n d j, ejpei; h[dh shvmat' ajrifradeva katevlexa~-eujnh'~ hJmetevrh~…peivqei~ dhv meu qumovn, Odissea , XXIII, 225-226, “ma ora poiché mi hai detto il segno chiaro del letto nostro…convinci il mio cuore”, dice Penelope a Odisseo dopo la diffidenza iniziale.

[3] porfurostrwvto" povro", v. 910, la via coperta di porpora .

[4] J. P. Vernant, Mito e tragedia nell'antica Grecia, p. 91.

[5]  xivfo~ ajrgurovhlon, Iliade , VII, 303.

[6] Eneide, IV, 507.

[7] Eneide IV, 647.

[8] Scutum reliquisse praecipuum flagitium…multique superstites bellorum infamiam laqueo finierunt ( Tacito, Germania VI).

Del resto i doni nuziali, iuncti boves, paratus equus, data armant, significano (denuntiant) che la sposa dovrà condividere le fatiche e i pericoli del marito.

[9] Cicerone, De inventione 2, 48,

 argomenti che si possono utilizzare per molte cause.  

[10] Exiit ergo Iesus foras, portans spineam coronam et purpureum vestimentum. Et dicit eis-Ecce homo! ( Giovanni, 19, 5) 

[11] Curzio Rufo, Historiae Alexandri Magni, 3, 3, 17.

[12] In De Iside et Osiride Plutarco spiega che il lino spunta dal seno della terra immortale e produce una veste semplice e pura parevcei kaqara;n ejsqh`ta che non pesa ma offre riparo dal calore ed è adatta ad ogni stagione e non genera insetti 352F.

Nel De Magīa Apuleio scrive che la lana è escrescenza di un pigrissimo corpo segnissimi corporis excrementum (56). Già Orfeo e Pitagora la riservavano alle vesti dei profani. Invece mundissima lini seges, la purissima pianta del lino, tra i migliori frutti della terra, copre i santi sacerdoti d’Egitto e gli oggetti sacri.

Erodoto scrive che gli Egiziani considerano empio entrare nei santuari e farsi seppellire vestiti di lana (II, 81).

[13] Sofocle,  Edipo re, 97

[14] In La tragedia spagnola ( 1592) di Thomas Kyd  il nobile portoghese Alexandro, con pessimismo meno assoluto, dice:"Il cielo è la mia speranza: quanto alla terra, essa è troppo infetta per darmi speranza di cosa alcuna della sua matrice" (III, 1).

 

Giovanni Ghiselli ha insegnato a lungo materie classiche nei licei e ha tenuto corsi di didattica della letteratura greca presso la SSIS dell'Università di Bologna e presso quella di Bressanone-Bolzano. Attivo anche nell'ambito dell'aggiornamento per docenti, ha curato e commentato diverse edizioni di classici, tra i quali l' Edipo Re (Loffredo, Napoli 1997) e l' Antigone (Loffredo, Napoli 2001) di Sofocle, Storiografi greci (Loffredo, Napoli 1999),  un'antologia dell'Odissea (Ulisse. Il figlio, le donne, i viaggi, gli amori, Loffredo, 200) La vita felice di Seneca (Siena 2005), Medea di Euripide (Cappelli, 2008). Euripide Baccanti (Canova,  Treviso, 2010); Petronio, Satyricon, Canova, 2006). Ha tenuto conferenze in vari licei e Università italiane e al festival della filosofia di Modena. Ha inoltre collaborato con Repubblica, con la Gazzetta di Modena e con il Fatto Quotidiano. g.ghiselli@tin.it