Frammenti di dialogo

Le parole che ci salvano

NERO – Avanti, professore. Possiamo parlare di qualcos’altro. Te lo prometto.
BIANCO – Non voglio parlare di qualcos’altro.
NERO – Non te ne andare. Lo sai cosa ti aspetta lì fuori.
BIANCO – Eh sì. Lo so eccome. So cosa mi aspetta e so chi mi aspetta. Non vedo l’ora di strofinare il naso contro la sua guancia ossuta. Sicuramente sarà sorpresa di vedersi trattata con tanto affetto. E mentre l’abbraccio forte le sussurrerò all’orecchio secco e antico: Eccomi qui. Eccomi qui. Adesso mi apra la porta.
NERO – Non farlo professore.
BIANCO – Mi dispiace. Lei è una persona gentile, ma io devo andare. Sono stato a sentirla e lei è stato a sentire me, e non c’è altro da dire. Il suo Dio a un certo punto si sarà trovato in un’alba di infinite possibilità, e ne ha tirato fuori questo. E adesso sta arrivando il finale. Lei dice che io voglio l’amore di Dio. Non è vero. Forse voglio il perdono, ma non ho nessuno a cui chiederlo.
(Cormac McCarthy, Sunset Limited, traduzione Martina Testa)

Le parole che ci salvano non sono mai dette apposta. Ci fanno ridere e sono piene di tenerezza involontaria. Dicono: sono così, non come vorrei sembrarti, sono lo sbadiglio che accompagna una profonda riflessione, e che la rende autentica, la paura di perderti che sfiora la gelosia che sto provando a confessarti, la mia debolezza e la paura che ne traspare. Sono la forza che ci trattiene a terra e non ci fa volare via. Se si perdono queste, nessun’altra ci può aiutare a fuggire dal deserto. Dio nel frattempo se ne deve essere andato, non risponde quando qualcuno tenta di parlargli. Ci rimane solo la quotidiana compagnia di chi si è trovato qui per caso.

Non servono ragionamenti, ma parole consuete e a volte il silenzio che sembra contenerle. Cosa ferma il delitto che cova dentro ognuno di noi, se non lo sguardo che comunica molto più di una legge troppo astratta perché sia compresa. L’ira e la rabbia non conoscono ragioni, non quando sono delle persone e ancor meno quando ammalano interi popoli. E’ la canzone cantata da un bambino che può fermarle, almeno finché un minimo di umanità si è conservata. Dopo, è troppo tardi per tutto.

(Immagine tratta dal film “The sunset limited”)

Il fischio del merlo

Il fischio dei merli ha questo di speciale: è identico a un fischio umano, di qualcuno che non sia particolarmente abile a fischiare, ma che si trovi ad avere un buon motivo per fischiare, una volta tanto e per una volta sola, senza intenzione di continuare, e lo faccia con un tono deciso ma modesto e affabile, tale da assicurarsi la benevolenza di chi l’ascolta.
“Dopo un po’ il fischio è ripetuto – dallo stesso merlo o dal suo coniuge – ma sempre come fosse la prima volta che gli viene in mente di fischiare; se è un dialogo, ogni battuta arriva dopo una lunga riflessione. Ma è un dialogo, oppure ogni merlo fischia per sé e non per l’altro? E, in un caso o nell’altro, si tratta di domande e risposte (all’altro o a se stesso) o di confermare qualcosa che è sempre la stessa cosa (la propria presenza, l’appartenenza alla specie, al sesso, al territorio)? Forse il valore di quell’unica parola sta nell'essere ripetuta da un’altro becco fischiante, nel non essere dimenticata durante l’intervallo di silenzio. Oppure tutto il dialogo consiste nel dire all’altro ‘io sto qui’, e la lunghezza delle pause aggiunge alla frase il significato di un ‘ancora’, come a dire: ‘io sto ancora qui, sono sempre io’. E se fosse nella pausa e non nel fischio il significato del messaggio? Se fosse nel silenzio che i merli si parlano? (Il fischio sarebbe in questo caso solo un segno di punteggiatura, una formula come ‘passo e chiudo’). Un silenzio, in apparenza uguale a un altro silenzio, potrebbe esprimere cento intenzioni diverse; anche un fischio, d’altronde; parlarsi tacendo, o fischiando, è sempre possibile; il problema è capirsi. Oppure nessuno può capire nessuno: ogni merlo crede d’aver messo nel fischio un significato fondamentale per lui, ma che solo lui intende; l’altro gli ribatte qualcosa che non ha nessuna relazione con quello che lui ha detto; è un dialogo tra sordi, una conversazione senza capo né coda.” ( Italo Calvivo, Palomar)

Avremmo qualcosa di molto importante di cui parlare, ma poco tempo per farlo. Come non bastasse, proprio ora, suona il cellulare, per una di quelle comunicazioni assolutamente inutili che non possiamo esimerci dall'ascoltare. Dovremmo cercare un posto tranquillo, un momento dove si possa, per un po’, dialogare senza essere interrotti da nessuno. Abbiamo solo bisogno di parlarci, ma per farlo ci comportiamo come due amanti che devono nascondersi da tutti. Non ci servono le parole, ma il silenzio! Di discorsi ne sentiamo dal mattino, quando ci svegliamo, alla sera, finché non chiudiamo tutte le fonti dei discorsi, elettriche, elettroniche e anfetaminiche. Di frasi studiate e rifinite è piena l’intera nostra giornata, e quando passiamo sulla tangenziale nemmeno facciamo più caso al cartellone che ci invita a riprendere gli studi interrotti, mentre un tempo ci dicevamo: per fortuna che sono laureato, che non devo più preoccuparmi di fare qualcosa di cui so di non avere alcun bisogno.

In mezzo a questo frastuono assordante, i grandi della terra invitano i loro nemici al dialogo. Anche loro giurano di volere risolvere tutto con le parole, ma non possono sentirsi, per via dei boati delle bombe lanciate per loro ordine. Così parlano per conto loro, credendo di essere ancora capaci di ascoltare, ma hanno i timpani distrutti e nemmeno un grido riuscirebbe a ottenere la loro attenzione.